L’evasione

Capitolo 1 – L’evasione

Natale era alle porte e nei giorni che precedono questa festa il mondo si veste di mescolanze di colore e di profumi. Basta andare in giro per le strade dei paesi per notare che ogni negozio, anche quello più austero, è addobbato con luci, alberi, disegni appesi alle pareti, alle porte e alle finestre. E che dire delle panetterie, delle dolcerie, delle cioccolaterie che emanano aromi di cannella, vaniglia, cioccolato, marzapane e strudel. Ma anche in campagna, dove non ci sono i negozi, si sente l’aria del Natale: è la foschia della sera; la pelle d’oca; il terreno indurito dall’umidità ghiacciata; il vento che si fa largo a spintoni tra le foglie degli alberi scompigliandole fino al mese di marzo, quando il sole e i primi tepori favoriranno il parto dei fiori; l’odore degli abeti, gli agrifogli, i pettirossi. Pamela annusava a pieni polmoni mentre procedeva veloce stando qualche passo indietro a suor Cetaceo. Il vero nome della suora era Ausiliatrice, ma era troppo complicato, e siccome era bianca come il latte e molto, ma proprio molto in carne, Betta, la piccola Betta, le aveva appioppato il nome di suor Cetaceo e da allora tutte le ragazzine del collegio la chiamavano suor Cetaceo, non in sua presenza naturalmente, anche perché suor Cetaceo era cattiva, molto cattiva.
Durante quella escursione Pamela oltre ad assaporare i profumi del Natale si godeva il sapore della libertà, cosa non usuale per le ospiti del Prosperitano, un vecchio e lugubre orfanotrofio mascherato da “casa famiglia”. Un istituto per minori considerato, dalle istituzioni e dalla politica, un modello pedagogico: ma che nella realtà era un carcere minorile dove vigevano punizioni e rigore. Era gestito dalle suore della Cucculalla che attraverso amicizie e loschi intrighi, avevano riunito assieme più case famiglia, rendendole una vera e propria casa penale. Inoltre, sebbene la legge prevedesse che al suo interno ci fossero educatrici specializzate, la suora madre aveva fatto prendere dei titoli falsi alle stesse suore della Cucculalla, avvalendosi di scuole di formazione conniventi, di modo che nel Prosperitano ci fossero solo suore. Le suore della Cucculalla erano cattive, irose, disumane, infami e gestivano l’istituto praticando il terrore e la violenza, ma nessuno lo sapeva, o forse a nessuno importava. All’interno del Prosperitano vivevano, se così si può dire, bambine senza famiglia: una nullità, per l’ipocrita borghesia benpensante.
Mentre si affrettava per tenere il passo a suor Cetaceo, Pamela notò qualcosa di stravagante: una coccinella! Se ne stava poggiata su una foglia sul ciglio della strada, Pamela avvicinò il dito per accarezzarla e lei le salì sulla mano. Aveva sempre sentito dire che le coccinelle portavano fortuna e la sua maestra una volta le aveva detto che se una coccinella si poggia sul palmo della mano bisogna soffiare per farla volare e, contemporaneamente, esprimere un desiderio. Ma Pamela non se la sentiva però di farla volare, faceva troppo freddo. Scavò un buco nel terreno, largo un po’ meno di un pugno, poi con una piccola asta di legno fece un buco laterale all’interno. Le aveva creato un rifugio e sperò che potesse resistere fino alla primavera per poter esaudire i desideri di altre mille persone; perché Pamela riteneva che tutti dovessero avere la possibilità di esprimere un desiderio, ora era toccato a lei, ma certamente prima o poi sarebbe toccato a qualcun altro. Espresse il desiderio, poi fece entrare la coccinella nel buco piccolo e mise una foglia nel buco grande, nel caso le fosse venuta fame. Pensò che lì avrebbe potuto dormire ripararsi dal freddo, se invece avesse voluto andarsene sarebbe potuta uscire tranquillamente. Ma una voce stridente, un urlo fastidioso e severo, stracciò in due i suoi pensieri: suor Cetaceo le urlava di muoversi se non voleva uno schiaffo sul naso. Sì, perché suor Cetaceo gli schiaffi li tirava sul naso, per avere la certezza di provocare dolore e di far uscire sangue e se provavi a coprirti il viso con le mani lei faceva di tutto per togliere le mani e non smetteva fino a quando non riusciva a colpire il naso. Pamela ne aveva già provati molti dei suoi scappellotti sul naso e non si voleva rovinare la passeggiata con il naso gonfio e sporco di sangue. Si strattonò da sola per alzarsi il più velocemente possibile e raggiungere la suora.
Si chiese se il suo desiderio si sarebbe mai avverato, un desiderio semplice in fondo, ma che sembrava impossibile: andarsene dal collegio delle suore della Cucculalla. L’unica cosa che voleva, almeno in quel momento, perché il suo desiderio più grande era di crescere, sposarsi ed avere figli, molti figli. Una famiglia tutta sua, finalmente una famiglia, visto che non l’aveva mai avuta.

Camillo stava vagando senza meta sbirciando le vetrine dei negozi. Era sempre stato affascinato dalla bellezza degli addobbi. Ma la cosa che gli piaceva di più erano gli abeti con le luci, le palline e le decorazioni. Finti o veri che fossero non faceva nessuna differenza, erano meravigliosi, gli facevano pensare ad una notte di stelle colorate. In realtà restava stregato davanti a tutto ciò che era colorato, e una volta, in una cartoleria, aveva visto una scatola di pastelli olandesi da trentasei colori. La scatola era aperta ed i pastelli erano disposti per sfumature di colore. Partivano dal bianco per poi passare al giallo chiaro, via via intensificandosi, fino ad arrivare all’arancione e poi il rosso, fino ad al viola, poi il blu, l’azzurro, il celeste fino a trasformarsi nel verde chiaro, verde scuro, marrone, marroncino etc.! Un insieme di colori fluttuanti, che sembravano salire e scendere come una catena di montagne. Camillo restò lì, paralizzato, di fronte a quella scatola fino a quando uno dei commessi, sospettoso, gli strepitò che se non comprava niente non poteva restare lì. Ma Camillo era attratto anche da un’altra caratteristica del Natale: i dolci. Quando incominciavano le feste tutti i suoi risparmi erano destinati all’acquisto di dolciumi di ogni tipo: biscotti, panettoni, torroni, cioccolato. Per suo padre era un vero enigma come riuscisse a procurarsi i soldi visto che lui non gli elargiva un centesimo, ma d’altronde nemmeno gli interessava, gli bastava che non li chiedesse a lui. Camillo usciva di casa il mattino presto e rientrava a notte inoltrata. Il padre non si era nemmeno accorto che aveva abbandonato la scuola e che trascorreva la maggior parte del tempo in strada. Una volta era stato contattato dalla scuola che gli aveva comunicato che il figlio mancava da quasi un mese, avevano chiamato alle dieci di sera, perché dopo svariati tentativi durante il giorno non erano riusciti a rintracciarlo. Il padre ascoltò la telefonata, riattaccò, andò nella stanza di Camillo, lo riempì di botte e se ne andò. Senza dargli una spiegazione, senza rimproverarlo, senza nemmeno ordinargli di ritornare a scuola.

La gente in strada formava una calca fastidiosa, Pamela aveva difficoltà a stare dietro la suora. La tutrice dal canto suo non si degnava nemmeno di girarsi a controllare se la ragazzina fosse dietro di lei. Ogni tanto, meccanicamente, diceva: “muoviti!”. Entrarono in un centro commerciale e la suora accelerò il passo, Pamela dovette cominciare a correre per non perderla di vista.
«Troviamo il reparto della pasta. Quei bastardi dei fedeli questo mese non ci hanno fatto molte donazioni per voi mocciose! Ma che pretendono che la dobbiamo comprare noi la pasta?».
La ragazzina ascoltò in silenzio il lamento della suora; d’altronde al Prosperitano non era permesso alle ragazze di replicare, in realtà il più delle volte non erano autorizzate nemmeno a parlare. Il reparto della pasta era a due passi da quello dei giocattoli. Pamela chiese timidamente se poteva allontanarsi un attimo per guardare i giocattoli. Suor Cetaceo stava per tirarle un ceffone, ma fu distratta da un’offerta sulla pasta e, miracolosamente, acconsentì dicendole perentoria di non allontanarsi da lì. Pamela volò come un falco. Di colpo fu catapultata nel paese delle meraviglie. Non aveva mai visto tanti giocattoli tutti insieme, e tutti così belli. Gli unici giocattoli che avevano dalle suore erano dei vecchi pupazzi di peluche, sudici, che alcune famiglie avevano donato per beneficenza, eppure, quelle pezze lerce a forma di orso erano quanto di più bello quelle ragazze avessero mai visto. Ma ora, davanti a quei giocattoli, tutti i pupazzi di peluche sembravano brutti e miseri. Lo sguardo di Pamela si arrestò davanti ad una bambola: “La principessa del castello”, era bellissima. Aveva i capelli biondi che si potevano pettinare, con una coroncina sulla testa; un vestito bianco e rosa rivestito di scintillanti paillettes. Pamela non aveva mai visto niente di più bello. Era incantata e in quel momento il mondo intorno a lei sparì, c’erano solo lei e la sua bambola. All’improvviso diventò lei stessa una principessa, il centro commerciale si trasformò in un castello ed i clienti in invitati al gran ballo. I suoi capelli rossi splendevano sotto la sua coroncina dorata e perfino le sue lentiggini, che aveva sempre odiato, erano sfavillanti e facevano pendant con il suo vestitino bianco e rosa. E l’orchestra suonava mentre lei danzava al centro della sala e tutti l’ammiravano e tutti l’applaudivano.

 

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