La fuga

Capitolo 37 – La fuga

Tornai in città dopo due giorni.
Quando arrivai in albergo l’allarme era già stato scattato: i ragazzi erano scomparsi. Erano otto ore che non si avevano loro notizie. Naturalmente in quel momento avrei fatto a meno di scrivere un articolo su di loro, ero troppo preoccupato per la loro sorte. Ma il mio direttore disse che era anche per aiutare le ricerche, in realtà era chiaro che gli interessava solo lo scoop, ma ero sotto le sue dipendenze e non potevo rifiutarmi. Così, fatte le poche interviste del caso realizzai di getto un servizio con le loro foto e la richiesta di fornire indicazioni a chiunque li avesse avvistati o sapesse qualcosa di loro. Si pensava addirittura ad un rapimento per chiedere un riscatto e questa notizia non piacque ad alcune persone, che come dei fulmini si precipitarono da me per chiedere spiegazioni: la nonna, il padre e la suora! Sembrava il titolo di un film: La nonna, il padre e la suora. Un film comico, ma quelli di comico avevano solo l’aspetto e i modi, le intenzioni erano tutt’altro che comiche. All’inizio, immemore delle storie che mi avevano raccontato i ragazzi, diffidai solo della suora, mentre ascoltai la nonna e il padre quasi impietosito per la loro tristezza, ma durò poco. Mi dissero che erano disperati, che amavano i ragazzi e che senza di loro non avrebbero potuto continuare a vivere, e come avrebbero fatto a pagare un eventuale riscatto? Non erano ricchi! Ma gli spiegai che se si trattava di rapimento a scopo di estorsione, i rapitori erano interessati ai soldi della ricompensa. Sobbalzarono.
«Cosa? Ma non è possibile… quei soldi… quei soldi sono dei ragazzi, non possiamo utilizzarli per il riscatto! Come faranno i ragazzi poi!» disse la nonna.
«Sì… certo… servono per garantire loro un futuro!» fece eco il padre.
«Sì, lo capisco!» risposi comprensivo, «Ma se ne va della loro vita, i soldi passano in secondo piano!».
I loro occhi si iniettarono di odio, il padre si avvicinò con fare minaccioso.
«Ma io… quei soldi… servono a migliorare le condizioni del Prosperitano, la condizione di tutte le bambine, non potrei sacrificare il bene di tutti per una sola persona!» disse la suora.
«Suora… quei soldi sono di Betta, non suoi, non del Prosperitano, non di tutte le bambine. Stesso discorso vale per Camillo e Pamela, i soldi sono i loro, non vostri…!» non feci in tempo a finire che mi ritrovai una mano del padre di Camillo sul collo che mi stringeva e l’altra che mi minacciava con un pugno, venni quasi meno nelle gambe, più per il comportamento inaspettato che per paura.
«È facile parlare con i soldi che non sono tuoi. Quei soldi non andranno per il riscatto… e prega a Dio che tu non c’entri niente con questa storia! Perché se c’è il tuo zampino per impossessarti dei nostri soldi sei cascato male!».
La nonna era al suo fianco che approvava annuendo.
Feci un respiro profondo e presi quanto più coraggio possibile.
«Toglimi le mani di dosso razza di farabutto che porta donnacce in casa!» dissi cercando di fare lo sguardo quanto più minaccioso possibile.
Quella frase però ebbe l’effetto desiderato perché il padre allentò la presa.
«I ragazzi mi hanno raccontato tutto, di lei, delle botte, dei soldi che spende al gioco e con le donne. Ho tutto registrato con le loro voci. Anche della nonna che ha abbandonato la nipote in un istituto e non è andata più a trovarla. Mi basta far sentire quelle registrazioni ai soldati o ad un giudice e vi toglieranno ogni diritto su quei bambini!».
Il padre di Camillo lasciò la presa e si irrigidì. La nonna spalancò la bocca arretrando di qualche passo. Si resero conto che non avevano a che fare con uno dei loro ragazzi ma, soprattutto, che a quel punto la possibilità di mettere le mani su quei soldi era appesa ad un filo, e quel filo lo reggevo io. Il padre di Camillo mi fissò con rabbia, forse stava pensando di uccidermi, ma poi si arrese. Così chiesi loro se erano a conoscenza di qualcuno che poteva avere intenzione di fare del male ai ragazzi. Mi guardarono stupiti, poi la suora con voce falsa mi chiese se non fosse stato Dabby Dan.
Il padre e la nonna si guardarono negli occhi, i loro sospetti questa volta si stavano spostando sulla suora. Evidente che pensavano che li avesse fatti rapire per prendersi anche i soldi di Pamela e Camillo oltre che quelli di Betta. La suora dovette carpire i loro pensieri perché si mise le mani sul petto in segno di discolpa.
Ma io fugai tutti i sospetti.
«State calmi, quando i ragazzi sono scomparsi la suora era con voi… e Dabby Dan è al sicuro, non può essere stato lui!».
«E se avesse dei complici?» chiese il padre.
«Mah… mi sembra assurdo, e poi Dabby Dan è un mostro che uccide i bambini, non sono i soldi il suo pallino!».
«I soldi fanno venire la vista ai ciechi!» disse la nonna.
«Lei ne sa qualcosa, vero?» chiesi ironico.
Mi voltai e me ne andai senza attendere la loro reazioni. Dovevo assolutamente scoprire dove erano finiti i ragazzi.
Consumai la colazione facendo telefonate per sapere se ci fossero novità, ma dei ragazzi nessuna traccia. Avevo un forte mal di testa. Il telegiornale trasmetteva il mio servizio sulla loro scomparsa. Mi telefonò il direttore, voleva le interviste dei tre: La nonna, il padre e la suora. Presi un antidolorifico ed uscii. Appena giunto all’albergo, li trovai lì. Mi stavano aspettando. Il padre e la nonna avevano preso possesso delle camere dei rispettivi ragazzi. La suora pur dormendo al Prosperitano, stazionava tutto il giorno nella hall dell’albergo, facendo da ombra agli altri due, silenziosa, in disparte: la più pericolosa, perché lavorava sottobanco. Quando mi videro quasi mi abbracciarono, sapevano già dell’intervista. Credo che avessero pensato che mi fossi ricreduto su di loro. Erano al settimo cielo, soprattutto la suora che volle andare prima in bagno, ritornando senza il velo ed i capelli pettinati.
Quando arrivò la troupe per le riprese litigavano a chi dovesse essere intervistato prima.
«Prima io perché mio figlio Camillo è l’unico maschio!»
«No prima io perché Pamela è di alto rango!»
«La prima devo essere io in quanto istitutrice ed educatrice delle bambine!».
Li minacciai che me ne sarei andato senza fargli l’intervista e così si calmarono un po’, ma continuarono a sgomitarsi.
Dopo la presentazione mi spostai di lato dicendo: “Ed ora ascoltiamo dalla viva voce dei parenti e della loro istitutrice un accorato appello. Ne uscì qualcosa che somigliava molto ad una parodia, credo che gli spettatori risero davvero tanto, mentre io mi vergognai di essere il giornalista del servizio.
«Cara nipotina mia, torna, devi dire ai rapitori che non abbiamo soldi. Patrizia… devi tornare!».
«Pamela!» corressi con tono sgarbato. «Sua nipote si chiama Pamela!»
«Ah… ehm… Pamela… senza di te non posso vivere!».
«Camillo figlio mio ho bisogno di te… con i soldi della ricompensa ti faccio un regalo! Non troppo costoso però!».
La nonna gli diede una gomitata.
«Ah… no, ehm… i soldi della ricompensa non li abbiamo, non ti posso fare un regalo. Non avrai niente, diglielo a quelli che ti hanno rapito, se ti hanno rapito. Ma se non ti hanno rapito e sei scappato da solo quando torni ti gonfio!».
Un’altra gomitata della nonna.
«Ti gonfio di soldi, non di botte. Però i soldi non ci sono! Ma comunque non ti do botte!».
E a concludere la suora.
«Betta torna, Bettuccia torna. Banditi lasciatela o il signore vi punirà! Pentitevi e lasciate liberi i ragazzi. Dio è misericordioso, ma voi andrete all’inferno. E Betta se sei scappata e non ti hanno rapito, torna perché Dio punirà anche te e ti farà patire le pene dell’inferno. Il castigo di Dio sarà violento!».,
L’operatore gli strappò il microfono di mano per far terminare quello sproloquio, dovette strapparglielo con forza perché la megera non voleva lasciarglielo.
Dovetti correggere le loro interviste con dei tagli e aggiungere un altro pezzo con la mia presenza, giustificando le loro stranezze con la disperazione di cui erano preda.
L’intervista ebbe successo, la cosa triste fu che i tre apparvero come povere vittime. Trascorsero due giorni, ma dei ragazzi nessuna notizia. A quel punto anche io incominciai a pensare al peggio.
Dabby Dan era stato trasferito nel carcere sotterraneo, le misure di sicurezza erano state raddoppiate. Le immagini dell’arresto furono trasmesse anche dalla mia televisione, fortunatamente non toccò a me fare le riprese. Nel guardare quelle immagini mi commossi e piansi come un bambino. Una mia collega mi strinse la mano e disse che almeno ora quel mostro non avrebbe più fatto del male a nessuno.
«Quel mostro, come lo chiamano tutti, non ha mai fatto del male a nessuno!» dissi con amarezza.
La collega mi guardò come se fossi impazzito.

 

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