In carcere

Capitolo 33 – In carcere

Il mio direttore, non so come, riuscì a farmi avere l’esclusiva di un’intervista a Dabby Dan.
Fu così che feci la conoscenza del mostro, il divoratore di bambini, o almeno così pensavo.
Lo tenevano prigioniero dall’altra parte della città nell’attesa di trasferirlo nel carcere sotterraneo di massima sicurezza a 40 km sottoterra. Il carcere cittadino era una sorta di caserma militare circondata da un muro sulla cui cima c’era del filo spinato lungo tutto il perimetro. Il portone di ingresso era presieduto da una decina di soldati. Mi perquisirono, mi tolsero il registratore e a nulla valsero le mie proteste sul fatto che era il mio lavoro registrare. Mi concessero quindici minuti, non un secondo di più. Il piazzale intorno all’edificio era una piana desolata e maltenuta. C’erano soldati ovunque. Una volta entrati mi accompagnarono fino ad una stanza con fuori soldati armati fino ai denti e con un cappuccio nero sulla testa che copriva anche il viso: erano le teste di cuoio, soldati super addestrati alle missioni più difficili. Mi fecero entrare. Dabby Dan era seduto su una sedia, mi voltava le spalle. Indossava una camicia di forza che a sua volta era legata alla sedia e ogni gamba della sedia aveva una fascia che andava a bloccarsi vicino a quattro ganci ai quattro lati della parete. Non avevo mai visto un tale sistema per fermare una persona. Dovetti scavalcare due fasce per giungere davanti a lui. Appena vidi il suo volto fui scosso da un brivido, non per paura, ma per tristezza, sembrava un gattino ferito. Aveva la gamba fasciata dove lo avevano sparato. Lo sguardo perso nel vuoto. Nemmeno mi guardò quando mi posizionai di fronte a lui. Aveva una benda per chiudergli la bocca, ma si era allentata ed era caduta sul mento. Lo salutai ma non rispose. Chiamai il suo nome, ma nemmeno si girò a guardarmi. La sua espressione contrastava con il mostro che aveva ucciso tanti bambini. Come poteva una persona con quel viso e con quell’espressione aver commesso tali nefandezze? Era grassottello, con il viso tondeggiante, capelli folti e schizzati che sovrastavano la testa come una criniera, alto poco più di un ragazzino. Il tutto gli conferiva un non so che di divertente, che contrastava completamente con l’espressione di malinconia stampata sul viso. Avevo poco tempo ed erano già trascorsi forse cinque minuti senza che fosse successo niente. Ebbi un moto di rabbia e avrei voluto prenderlo a schiaffi per tutti quei bambini che aveva ucciso. Così decisi di provare a trovare una briciola di sentimento in lui.
«Lo sai che Camillo è un bravo ragazzo? Anche Pamela!»
Si girò a guardarmi, sembrava continuasse a pensare ad altro, ma mi guardava.
«Oh amici miei, mi vengono a trovare!» disse, e per la prima volta comparve un sorriso sul suo viso, non era un ghigno, era un sorriso tenero.
«Io, quando esco li vado a trovare!».
«Dabby Dan… tu non uscirai mai più dal carcere!».
Si intristì di nuovo.
«Io, niente ho mai fatto!».
«Dabby Dan… tu hai ucciso tanti bambini, come puoi dire che non hai mai fatto niente?».
Mi guardò senza capire.
Non so come mi venne, forse in me incominciò a farsi strada l’idea che in lui qualcosa non funzionasse.
«Hai fatto la bua a tanti bambini!»
«La bua, qualcosa che non si fa!»
«Pamela, Betta e Camillo tu li volevi uccidere, vero? Hai fatto scomparire molti bambini!».
«Nascondino, è il gioco di scomparire per nascondersi!».
Persi completamente la pazienza, lo afferrai per la camicia di forza e lo scossi arrabbiandomi senza urlare per non dare nell’occhio ai soldati.
«Pezzo di mascalzone sei sono un lurido assassino!».
Ma fu un errore perché si chiuse di nuovo a riccio, riprese a guardare il vuoto con lo sguardo spaventato. Mi ripresi e gli chiesi scusa. Ma restò immobile a fissare il vuoto. Riprovai a dire il nome dei ragazzi sperando che producesse lo stesso effetto di prima.
Ma non un battito di ciglio modificò la sua espressione spaventata di uccellino ferito. Ero stato un vero imbecille. Poi la porta si aprì e mi ordinarono perentorio di uscire. Mi alzai amareggiato e mi diressi verso la porta.
«Se non sei un mostro, chi ha fatto sparire tutti quei bambini?» chiesi sarcastico.
«Caso 2514, bisogna chiedere a lui!» disse laconico.
Non potei domandargli cosa intendesse, il soldato mi prese il braccio e mi spinse fuori con forza senza troppi convenevoli.
Caso 2514, che cosa voleva dire? Quella sera tornai a casa con una strana sensazione di tristezza. Ma chi era Dabby Dan? Come poteva essere un mostro e allo stesso tempo fingere così bene? Forse era uno psicopatico che non si rendeva conto di quello che faceva? Certo è che un ritardo mentale lo aveva, se pur lieve, ma un mostro proprio non sembrava. Così andai su internet ed incominciai a navigare, digitai Dabby Dan: più di un milione di siti internet. Dovetti mettere dei filtri e inserire date di ricerca risalenti a cinque anni prima, quando fu arrestato. Navigai fino a notte inoltrata, ma non riuscii a trovare notizie reali. La maggior parte dei siti riportavano copia-incolla di altri siti principali, perlopiù quotidiani. Nessuno parlava di Dabby Dan e della sua storia. Nessuno diceva dove era nato, chi era, cosa faceva, solo che aveva ucciso il figlio ed un’infinità di bambini. Riportavano i nomi delle povere vittime, la loro storia e i commenti dei genitori che invocavano la pena di morte. Poi il profilo del mostro, completamente falso, sembrava la descrizione del Tirannosauro Rex: Bava alla bocca, denti canini come Dracula, occhi spiritati iniettati di sangue, mani rugose con unghie come artigli, irsutismo sulla maggior parte del corpo. Trovai però un trafiletto di un giornale locale che aveva pubblicato un’intervista rilasciata dallo psichiatra che aveva redatto il profilo psicologico della perizia del Pubblico Ministero. La cosa mi lasciò esterrefatto:
“Mente fortemente disturbata. Cinico, di una spietatezza impassibile. Gode nel fare del male. Ride e si eccita nel vedere la vittima soffrire. Più la vittima piange, più lui prova piacere. È sadico, perverso, ambiguo. Finge di avere un ritardo per suscitare pietà, ma è una mente lucida e folle allo stesso tempo, più crudele di Hitler e Gengis Kahn, più pericoloso della peste, del colera, del vaiolo e di ebola. Se non fermato potrebbe rivelarsi la più grande piaga che il mondo abbia mai conosciuto!
Dabby Dan? Quel Dabby Dan con cui avevo parlato lo stesso giorno?
La mia testa stava fumando, ma davvero quel piccolo uomo, alto poco più di un papavero, corrispondeva alla descrizione appena letta? Mi addormentai e feci sogni confusi (ndr tranquillizziamo subito il lettore: in questo libro non si consumano inutili pagine per raccontare un sogno come nella maggior parte dei libri, così come non ci sarà nessun inseguimento di automobili come nei film americani!). Mi svegliai in tarda mattinata che avevo un forte mal di testa.
Telefonai al direttore e gli chiesi il permesso di assentarmi per qualche giorno per fare indagini più approfondite sul mostro e, naturalmente, lui ne fu entusiasta. Così, partii alla volta della città di Dabby Dan, dove fu arrestato e dove si tenne il processo.

 

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