Libro gratis per ragazzi capitolo terzo

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La Banda di Casapunessa ed il cane Grigio

 

III Capitolo  (vai al al capitolo 1)

 

…videro Grigio a spasso con Faffi!

I ragazzi si avventarono contro di lei.
«Sei una ladra, hai rubato il nostro cane!» urlò Max.
«Ma quale vostro? Se è un cane randagio!» si difese la bambina.
«Ma noi l’abbiamo adottato e tu l’hai rubato!» urlò Otto.
«Non è vero, io lo conosco perché sta sempre in giro, è lui che è venuto da me!».
«Sì, come no! Sei una bugiarda! Ieri ti abbiamo beccata che ci spiavi. Dicci la verità… ci hai seguiti fino al nostro rifugio segreto e hai rubato Grigio!».
Faffi restò un attimo imbambolata.
«Perché avete un rifugio segreto? Tutto vostro?» balbettò la bambina.
«Non sono fatti tuoi!» urlò Gianna.
Max prese Grigio con rabbia.
«Andiamocene!» disse poggiando poi il cane per terra e dicendogli di camminare.
«Ma sì… prendetevelo il vostro cane, io non lo voglio!» disse Faffi con tono arrabbiato, cercando di nascondere goffamente il suo animo ferito.
«Non ti azzardare più a rubarlo!» minacciò Otto.
Faffi restò in silenzio con il capo basso per nascondere gli occhi lucidi. Max e Gianna se ne accorsero e provarono un po’ di pena. Faffi non era tipo da tenersi il sassolino nella scarpa, era un maschiaccio e da tale cercava di comportarsi, ma questa volta non reagì. In realtà aveva una soggezione particolare nei confronti della banda. Nonostante non andasse d’accordo con nessuno, gli unici della classe per i quali nutriva rispetto e ammirazione erano i ragazzi della Banda di Casapunessa. E così non reagì nemmeno all’ultimo insulto che le rivolse Rollo.
«Ma ‘sta scema! Sei proprio stupida!».
Max prese Rollo sotto il braccio.
«Dai andiamo, lasciamola stare, vieni Grigio andiamo!».
Ma il cane non si mosse, guardò dapprima Faffi e poi Max, poi abbaiò ed andò da Faffi.
«Grigio!» esclamò Max offeso.
Faffi accarezzò Grigio, poi lo spinse via verso i ragazzi della banda.
«Vai… lasciami perdere!».
Grigio corse dai ragazzi i quali se ne andarono. Gianna si voltò un paio di volte. Poi ci fu un lungo sguardo tra lei e Faffi, ma non c’era odio negli occhi di Gianna, si stava solo chiedendo chi fosse in realtà Faffi, antipatica come la consideravano tutti o una bambina sola?
I ragazzi andarono al bar e si sedettero al tavolino. Era il bar di Giuseppe, una meta fissa per loro. Era uno dei pochi bar dove non c’erano gli uomini del paese a giocare a carte. Da Giuseppe ci si poteva sedere ai tavolini senza udire urla, bestemmie e quel tanfo di fumo di sigarette misto a quello di birra e alcool.
«Quella bastarda ci ha seguiti e ora conosce il nostro nascondiglio!» disse Otto preoccupato.
«Non sono sicuro che ci ha seguiti!» rispose Max.
«Grigio è un cane randagio, secondo me è scappato da solo e poi è andato in paese e lì ha incontrato Faffi. Grigio è affezionato anche a lei!» aggiunse Gianna.
«Comunque facciamo attenzione che non scoprono il nostro rifugio!» replicò Rollo.
Il discorso si spostò su Grigio, e Faffi fu dimenticata. Solo nei pensieri di Gianna c’era qualcosa che non la lasciava tranquilla. Nella sua testa rimbombavano alcune frasi che martellavano insistentemente: “Date sempre a tutti almeno due possibilità!” – “Le cose non sempre sono come sembrano!”. Erano due frasi che ripeteva spesso il maestro Fabio. E se Faffi non fosse stata così antipatica? Se dietro a quel riccio si nascondeva una bambina in cerca di amici? Poi i pensieri di Gianna furono interrotti dalla voce del sig. Cuomo, il cameriere. Rollo aveva parlato in dialetto ed il cameriere l’aveva rimproverata.
«Ragazzi quante volte vi devo dire di non parlare dialetto?».
«Ma ora non siamo a scuola!» replicò Otto.
Il sig. Cuomo si sedette al tavolino con loro. Era una persona squisita. Aveva più di sessant’anni. Faceva il cameriere da una vita. Aveva lavorato in molti ristoranti importanti ed aveva dei modi fini e gentili. Adesso era in pensione e dato che si annoiava senza fare niente dava una mano a Giuseppe che era suo cognato. Non era una persona istruita, ma per fare il cameriere aveva studiato in alcune scuole specializzate ed inoltre aveva la passione dei cruciverba, e nel suo piccolo si era fatto una discreta cultura. I bambini di Casapunessa lo trovavano simpatico e una buona clientela del bar era costituita proprio da quei bambini.
«Hey ragazzi ma quello non è il randagio che sta sempre in giro?» chiese.
«Sì l’abbiamo adottato, ora ce ne prendiamo cura noi!» rispose Gianna.
«Allora se posso darvi un consiglio mettetegli subito un collare con un numero di telefono!».
«È vero, hai ragione! Così se si perde ci possono chiamare!» disse Max.
«Comunque ragazzi, come vi dicevo, parlate sempre italiano. Ma lo sapete che tanti anni fa le mie sorelle sono state le uniche ragazze di Casapunessa a trovare marito perché parlavano italiano?».
«Ma dai!» esclamò Rollo.
«Sì, sì. Dovete sapere che per un po’ di tempo nelle nostre campagne si stabilì un contingente militare di soldati di leva. Fino a qualche anno fa ogni ragazzo una volta diventato maggiorenne doveva fare un anno di militare!».
«Che schifo!» disse Otto.
«Eh figlio mio, era meglio prima, i ragazzi maturavano facendo il militare, ora invece sono tutti delle pappamolle! In paese c’erano militari provenienti da ogni parte d’Italia: Milano, Torino, Venezia, Bologna, Firenze, Palermo, Cagliari. Tutti bei ragazzi, alti, educati. Molti di loro provenivano da buona famiglia.
Ai ragazzi piacevano i suoi racconti. Succedeva spesso che lui raccontasse storie e loro stessero imbambolati ad ascoltarlo. Avevano imparato ad amare le storie con il maestro Fabio.
«Ora potete immaginare…» continuò il sig. Cuomo, «…che tutte le ragazze di Casapunessa si truccavano, si vestivano bene come nei giorni di festa, per farsi notare. E i militari ne restavano affascinati, ma quando si avvicinavano per parlare con loro, le ragazze rispondevano in dialetto casapunnese ed i militari non le capivano. Le ragazze di Casapunessa non sapevano parlare in italiano e ai militari rispondevano in dialetto. È come se voi andate in America e discutete con gli americani, ma loro parlano in inglese e voi italiano. Come fate a capirvi? E qua arrivarono le mie sorelle. Mentre in tutte le famiglie si parlava il dialetto, mio padre, un vecchio tipografo, ci obbligava a parlare italiano, da sempre, da piccoli. Non sia mai che in casa ci sentiva parlare in dialetto, succedeva l’inferno. Fatto sta che quando c’erano le mie sorelle, intorno a loro si faceva una folla di militari. E fu così che le mie tre sorelle nel giro di poco tempo si fidanzarono con tre militari e dopo qualche anno si sono sposate e furono le uniche di Casapunessa che si sposarono con i militari, le altre restarono a bocca asciutta. Pensate che ora una vive a Firenze con un imprenditore, un’altra a Bologna e l’ultima a Milano. Tutte con persone di buna famiglia e con una buona posizione!».
«Ma a me piace Casapunessa… io non mi voglio sposare e andarmene al nord!» replicò Gianna.
«Certo… io mica vi dico di andare via. Ma è per farvi capire quanto può essere importante sapere parlare in italiano, anche per un colloquio di lavoro!».
«È vero però, anche il maestro Fabio diceva che dovevamo imparare a parlare italiano!».
D’un tratto calò il silenzio. Il solo nominare il maestro era tabù.
«Va bene, ma quel maestro lì lasciamolo stare dove sta ora, forse è meglio per tutti voi!».
I ragazzi lasciarono il bar e sulla strada incontrarono Benny che era appena arrivato. Benny salutò in dialetto e Rollo lo rimproverò dicendogli che se parlava dialetto non si sarebbe sposato. Benny spalancò la bocca senza capire e pensò che Rollo fosse impazzita. Poi gli altri gli raccontarono tutto, dalla scomparsa di Grigio, a Faffi, al signor Cuomo. Tralasciarono solo la parte che riguardava il maestro Fabio. Quel discorso nessuno voleva affrontarlo e inoltre era meglio non parlarne. E poi anche i genitori non volevano che se ne parlasse, avevano imposto il divieto tassativo di nominarlo: non era degno nemmeno di essere pensato. Ma i pensieri non possono essere controllati e la maggior parte dei ragazzi non riusciva a non pensare al maestro Fabio. Ma era un pensiero segreto, mai espresso, mai confidato. Un pensiero che provocava dolore, tristezza e, allo stesso tempo, amore profondo. Era il maestro che tutti avrebbero voluto, che ti faceva ridere e piangere per le emozioni che ti regalava; un amico pronto a mettersi contro tutti pur di difenderti. Ma poi, all’improvviso, inaspettatamente, una fitta nel fianco, a tradimento, alle spalle. Il maestro Fabio si era rivelato per quello che nessuno avrebbe mai e poi mai sospettato: un mostro. Un maestro che incarnava tutte le paure più grandi di un bambino e di un genitore, quel famoso sconosciuto che ti regala le caramelle, quello che in televisione chiamano pedofilo. Ma il maestro Fabio non regalava caramelle e non era uno sconosciuto, ti regalava storie, canzoni, amore, ma nonostante tutto si era rivelato un mostro o almeno così dicevano i grandi.

Benny voleva vendicarsi di Faffi, ma i compagni riuscirono a dissuaderlo. Poi Otto ebbe un’idea.
«Ragazzi, perché non facciamo un pic-nic?».
Furono tutti entusiasti ed ognuno andò a casa per preparare qualcosa da mangiare.
Max portò Grigio con sé per essere sicuro che nessuno lo prendesse. Arrivato a casa legò il cane in giardino perché non lo vedesse la mamma. Ma fu sfortunato perché la mamma era proprio nel cortile.
«Che cos’è questa storia? Da dove esce quel cane?» Chiese con tono severo.
«No, stiamo organizzando un pic-nic, ma siccome Benny doveva andare al supermercato e non poteva portarselo, me lo sono preso io per qualche minuto. Giusto il tempo di prendere qualcosa da mangiare!» rispose Max timidamente.
La mamma lo guardò con sguardo cupo e gli disse che non aveva tempo di preparargli qualcosa per il pic-nic e gli suggerì di prendere un po’ di frutta, del pane e qualcosa da bere. Di nascosto, Max, prese anche una fetta di carne cruda.
I genitori di Otto avevano una salumeria e lui provvide a portare salumi e formaggi. Poi prese una bottiglietta di olio, pomodori, del sale e un po’ di pane vecchio.
La mamma di Rollo non era d’accordo per i pic-nic. Rimproverò la bambina di non stare mai in casa, di stare sempre in giro, di spendere un sacco di soldi. In realtà Rollo non spendeva molti soldi, il problema era che la famiglia stava attraversando un periodo economico molto difficile, e la donna era un po’ nervosa. Ma Rollo capiva, così come nel mese di maggio aveva compreso che era necessario abbandonare la scuola di danza a cui teneva molto. Ma Rollo sapeva anche essere accattivante con la madre e, dopo un po’ di moine, riuscì a convincerla di lasciarla andare e a farsi dare anche qualche spiccio: era la piccola della Banda di Casapunessa, elastica come una contorsionista, agile e veloce come un’atleta. A scuola faceva parte del gruppo dei più bravi in scienze motorie, insieme a Dodo (il primo della classe), Max e Faffi.
Con i soldi avuti Rollo andò in pasticceria e comprò dei biscottini alla pasta di mandorle. Quando si fa un Pic-nic il dolce non può mancare.
Il padre di Benny propose di comprare della carne e delle salsicce da arrostire alla brace. Era sempre così, quando Benny doveva fare qualcosa, suo padre mostrava più entusiasmo di lui. E spesso Benny temeva che gli chiedesse di partecipare al pic-nic; non che gli dispiacesse la compagnia del padre, ma quando era con la banda nessuno poteva immischiarsi, nemmeno l’uomo più in gamba del mondo. Se Benny doveva andare in gita scolastica, il papà gli comprava un mega zaino, scarpe da montagna, borraccia per l’acqua, macchina fotografica. Alla fine la gita era in qualche città storica e tutto quello che il padre gli aveva comprato si rivelava inutile, a parte le cose da mangiare che divideva con i compagni. A Benny piaceva mangiare, a cibo non si poteva rinunciare ed infatti era il più rotondetto della banda. Gianna fu l’unica a portare qualcosa di caldo. La mamma gli aveva preparato della pasta al forno. Si erano dati appuntamento sul piazzale della chiesa, da lì si diressero al rifugio. Dal rifugio scesero la campagna giungendo fino al torrente. Era un fiumiciattolo di piccolissime dimensioni ed in alcuni tratti l’acqua stagnava in piccole insenature dove in estate vi ci si poteva fare il bagno. La corrente non era molto forte e non era pericoloso per i bambini, anche perché l’acqua non superava le ginocchia. Si accamparono sotto l’ombra di un albero. Tolsero scarpe e calzini ed incominciarono a giocare con l’acqua. Il loro gioco preferito era agitare le mani nell’acqua per farla schizzare. Otto che voleva diversificarsi dalla massa tirava calci sulla riva e faceva alzare le gocce d’acqua, che salivano fino in cielo e ricadevano a pioggia. Gianna cercò di imitarlo, ma scivolò e si ritrovò con il sedere nell’acqua. Ma prima che gli altri potessero fare o dire qualcosa Gianna incominciò a ridere come una pazza. Gli amici dapprima guardarono attoniti, poi risero anche loro a crepapelle. Fra le tante cose che il padre di Benny gli aveva fatto portare, c’era una piccola bacinella e non ci volle molto perché al piccolo furbo rotondetto non venisse l’idea di utilizzarla per tirare acqua. Fece un mega-bagno a Otto il quale rimase immobile a bocca aperta per qualche secondo.
«Vendetta!» urlò quando si riprese.
Benny incominciò a scappare con Otto che lo inseguiva, ma quest’ultimo era talmente zuppo di acqua che non riusciva a correre molto veloce. Max saltava da una parte all’altra dell’insenatura e si bagnava da solo facendo spruzzare l’acqua. Grigio saltellava insieme a lui abbaiando felice. Benny decise di fare uno scherzo a Max. Mentre l’amico era in acqua lui andò sotto l’albero dove erano raccolte le vettovaglie, e con l’aiuto di Rollo prese una pera di cui Max era ghiotto, con uno stuzzicadenti incominciò a fare dei fori nei quali poi lasciò cadere del pepe. Poi ci passò sopra il dito per chiudere i buchi. Ripose la pera nel cesto mettendola sopra tutte le altre in bella evidenza. Poi presero la bottiglia di acqua di Max e vi versarono dentro del sale, l’agitarono bene e la riposero. Per far mangiare la pera a Max, Benny ideò una gara. Lui e Otto andarono sulla riva del ruscello vicino a Max.
«Chi per primo afferra la prima pera, e se la mangia, vince un premio!».
Max non se lo fece ripetere due volte che già si era posizionato sulla linea di partenza. «Tre, due, uno e viaaaa! ».
Max incominciò a correre come un pazzo, ma non ce ne sarebbe stato bisogno perché i due amici non gareggiarono lealmente, ma andavano appositamente piano. Max afferrò la pera ed incominciò a saltare dalla gioia.
«Yoohoo, ho vinto, ho vinto, sono il campione. E me la mangio e me la mangio!».
Fece un gran boccone, incominciò a masticare come un dissennato, ma poco dopo sentì il sapore forte del pepe.
«Che schifo! Acqua, acqua!» urlò.
Si spostò verso il cesto, prese la sua bottiglia d’acqua ed incominciò a bere a grandi sorsi. Anche questa volta non impiegò molto a sentire il gusto sgradevole dell’acqua salata.
«Ma che succede? È tutto disgustoso…!»
Quando alzò gli occhi e vide che tutti gli amici ridevano, si rese conto dello scherzo.
Otto incominciò a saltare.
«Ho vinto, ho vinto, sono il campione!».
«Otto… sei stato tu?» disse Max con tono finto arrabbiato.
«No, te lo giuro!».
«E allora chi è stato?».
Tutti si allontanarono da Benny lasciandolo solo.
«Grazie eh! Che amici!» disse il furbetto.
Max cominciò a rincorrerlo mentre Benny cominciò a saltare come un coniglio in fuga. E Grigio cominciò ad inseguirli. Max non riuscì a raggiungere Benny perché di tanto in tanto si fermava per sputare fuori dalla bocca quel sapore piccante-salato.
Lentamente scese il tramonto e gli amici incomonciarono a raccogliere le proprie cose. Infilarono tutta la spazzatura in una busta e si avviarono verso casa, con Grigio che faceva da apripista. Erano i ragazzi della Banda di Casapunessa. Erano convinti che sarebbero rimasti amici per sempre, in barba al diventare adulti, agli eventi della vita, a dispetto di settembre quando sarebbero andati alle scuole medie e sicuramente non sarebbero capitati tutti nella stessa classe. Ma quella sera avevano un problema più grande che pensare al futuro: dove avrebbero lasciato Grigio? Libero non si poteva perché Faffi avrebbe potuto riprenderselo. Nessuno di loro aveva la possibilità di tenerlo in casa, chi per problemi di spazio, chi perché i genitori non l’avrebbero mai permesso. Alla fine decisero di chiuderlo nella capanna lasciandogli una coperta, del mangiare e la finestra aperta per farlo respirare, e… e un guinzaglio fatto con una corda che attaccarono ad un asse di legno della capanna. Erano molto tristi per quella soluzione, ma non avevano scelta. Non potevano rischiare che Grigio finisse nelle mani sbagliate. Grigio non sembrò contrariato. Non abbaiò nemmeno quando chiusero la porta perchè impegnato a mangiare. Quella notte Max non chiuse occhio. Di tanto in tanto si alzava e si affacciava dalla finestra e fissava il cielo pensando a Grigio dall’altra parte del paese. Pensava che il poverino potesse avere paura o che stesse piangendo. Avrebbe voluto scappare nella notte per andarlo a trovare, voleva abbracciarlo e restare con lui tutta la notte per tenergli compagnia. Max stava male, ma quello che non sapeva è che quel guinzaglio fatto di spago non era un ostacolo per Grigio, gli bastò poco per rosicchiarlo e spezzarlo. Non appena Grigio finì spiccò un salto e si arrampicò su un ramo e poi su un altro e scese dall’albero con l’agilità del giaguaro. E come ogni notte da quando era nato, incominciò a vagabondare per il paese insieme agli altri cani randagi incontrati per le vie del paese, con i quali si rincorreva, si azzuffava, ed insieme abbaiavano, giocavano e correvano dietro qualche cagnetta. Grigio aveva la grande fortuna di provare quella sensazione di libertà che nessuno poteva capire meglio di lui: fare tutto quello che voleva, quando voleva.
Il mattino seguente i ragazzi si erano dati appuntamento molto presto. Max aveva portato con sé un collare su cui aveva scritto il suo nome, l’indirizzo e il numero di telefono, così non sarebbe stato più un cane randagio, e i cani con il collare non si possono toccare. Max, Otto, Rollo e Gianna si incontrarono davanti la chiesa. Benny aveva detto che li avrebbe aspettati al rifugio ed infatti quando arrivarono Benny era li, seduto su un tronco a braccia conserte. Max quasi si adirò.
«Perché stai lì impalato e non hai fatto uscire Grigio dalla capanna?».
«Non c’è! È scappato di nuovo!» rispose Benny sconsolato.
«Che dici? Come ha fatto?» chiese Otto.
«Boh… quando sono arrivato volevo fargli una sorpresa e invece la sorpresa l’ha fatto lui a me!».
«Va bene! Va bene! Sarà andato di nuovo in paese, andiamo a riprendercelo!» disse Rollo risoluta.
«Ma se l’ha preso di nuovo quella scema di Faffi questa volta la faccio volare giù dal sesto piano!» disse Gianna infervorata.
«Non ci sono palazzi di sei piani a Casapunessa!» la riprese Otto.
I ragazzi si precipitarono in paese e non impiegarono molto a trovare Faffi che come al solito gironzolava da sola. Erano molto arrabbiati e l’assalirono con veemenza.
«Dove sta Grigio? Te lo sei preso un’altra volta?» urlò Gianna come una forsennata.
Faffi tentò di difendersi, ma non le permisero di parlare.
«Stavolta ti do tante di quelle botte che ti mando dal dottore!» minacciò Otto.
«Io non l’ho preso!» urlò Faffi.
«Come no! Tu sei una vipera!» disse Rollo.
«Senti Faffi, non litighiamo, tu ci dici dove sta Grigio e noi ti lasciamo in pace!» disse Max con un atteggiamento più calmo rispetto agli altri.
«Io non ce l’ho il vostro stupido cane. E lasciatemi in pace, non è colpa mia se non siete capaci di prendervene cura!» disse Faffi con lo sguardo di sfida ma che tradiva gli occhi lucidi di rabbia.
Alla fine i ragazzi capirono che Faffi non c’entrava con la scomparsa di Grigio e la lasciarono in pace.
Mentre si allontanavano Gianna continuava a voltarsi verso di lei. Per la prima volta si rese conto che Faffi era una bambina come tutte le altre e non quel mostro che tutti allontanavano sempre. Si rese conto che gli occhi di Faffi erano colmi di lacrime e provò pena per lei. Si pentì di averla assalita in quel modo, ma all’improvviso i suoi pensieri furono interrotti bruscamente dalle urla dei compagni.
«Il furgoncino del canile!» urlò Benny, «Quello è il signor Rosario l’accalappia cani!».
«Fermiamolo forse l’ha preso lui!» disse Max.
I ragazzi si pararono davanti al signor Rosario il quale si fermò affacciandosi dal finestrino.
«Che c’è ragazzi? Che cosa è successo?».
«Signor Rosario hai visto un cane grigio e nero?» chiese Rollo.
«Ma chi? Quel randagio peloso?»
«Non è più un randagio, l’abbiamo adottato, vedi abbiamo anche il collare!» disse Max mostrandogli il collare.
«Oh, mi dispiace ragazzi, ma il direttore stamattina mi ha dato l’ordine di prendere tutti i cani senza collare… e io non lo sapevo che era vostro…!».
«Oh no! E adesso come facciamo?» chiese Max quasi in lacrime.
«Ragazzi fatevi accompagnare dai vostri genitori e acquistate il cane!».
«Dobbiamo pagarlo? Ma se il cane è nostro!» disse Otto arrabbiato.
«Ragazzi senza il collare non può essere considerato vostro, quindi è del canile!».
«E quanto costa?» chiese Benny.
«Oh… solo duecento euro!».
«Duecento euro? E dove li prendiamo questi soldi?» chiese Gianna.

 

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