Servizi sociali | Lettera anonima

Servizi Sociali
Lettera anonima

servizi sociali

Questa lettera ci è arrivata da una persona che ci ha chiesto di restare anonima, non sappiamo chi siano gli assistenti sociali, e non conosciamo il paese.

La pubblichiamo per conoscenza, come tante storie assurde che accadono nel nostro paese.

La prendiamo con le pinze, la persona che ci scrive potrebbe aver inventato tutto, così come potrebbe essere tutto vero. Noi la pubblichiamo e basta, poi ognuno trarrà le proprie considerazioni.

 

Fin da ragazzina ho sempre adorato stare coi bambini ed ho sempre considerato l’affido un’idea bellissima. Single, quarantacinquenne, senza figli, decido di dare la disponibilità per l’affido. Dopo un breve corso (in cui imparo, tra le altre cose, che lo scopo della legge sull’affido è favorire il più possibile la permanenza del bambino nella famiglia d’origine) e alcuni colloqui con una psicologa, a ottobre 2012 arriva a casa mia C., ghanese, 2 anni. E’ stata un’esperienza bellissima e agghiacciante: mi sono sentita inadeguata, ho perso tutte le unghie (mani e piedi) per lo stress, nessuno è venuto a verificare se avevo difficoltà con il bambino. Lui era pieno di sofferenza, non riesco ad immaginare quanto sia stato difficile trovarsi con un’estranea, tra l’altro bianca, quindi molto diversa da lui, all’improvviso. I servizi hanno aiutato solo dal punto di vista economico (ad esempio, quando dovevo andare al lavoro e lui non era all’asilo, i servizi sociali mi pagavano una baby sitter), ma nessun supporto psicologico, né a me, né a lui. Lì mi sono resa conto di una cosa che ho visto rivendicata nel vostro sito e su cui sono d’accordissimo: bisognerebbe promuovere un’attività di tutoraggio quotidiano sia verso le famiglie in difficoltà, sia presso gli affidatari. Sarebbe un grosso aiuto oltre che un controllo. L’affido vero e proprio si è concluso dopo sei mesi: C. è tornato dalla mamma e l’ha trovata con in braccio un bambino nuovo, nato durante il periodo in cui lui era stato allontanato dalla famiglia. Come deve essersi sentito? Io sono diventata molto amica della mamma (è successo imprevedibilmente, all’inizio ero diffidente e cercavo di tenere la famiglia a distanza) ed ho continuato il rapporto con C. che per me è tuttora, quasi un figlio. Nello stesso periodo in cui mi è stato affidato C. (per la precisione 5 mesi prima), anche sua sorella R., autistica, 4 anni, è stata data in affido ad una casa famiglia. Le motivazioni date alla madre per questo affido sono state le stesse che per C.: sei in difficoltà perché sei incinta, quando avrai partorito, entrambi i bimbi torneranno a casa. Sottolineo che entrambi gli affidi non sono stati fatti in maniera coatta, ma in accordo tra servizio sociale e famiglia. Finito l’affido di C., siccome le assistenti sociali stesse hanno sempre sostenuto che la madre ed il padre siano brave persone e vogliano bene ai figli e che quindi l’allontanamento temporaneo dei bambini fosse motivato solo da inadeguatezza culturale (soprattutto nell’affronto di un autismo grave come quello di R.) e dalle condizioni difficili dovute alla gravidanza, ho fatto la seguente proposta: siccome sono educatore professionale specializzato nell’handicap, togliete R. (la bambina autistica) alla casa famiglia, riportatela alla famiglia d’origine, attivate un affido parziale a mio nome di tutti e tre i bambini (C., R., e il nuovo nato, E.), ed io aiuterò la madre e nell’educazione dei figli e nelle terapie che R. dovrà seguire. Mi sembrava un’idea molto intelligente, soprattutto molto in linea con lo spirito della legge. La risposta dei servizi è stata: no. Senza spiegazioni: no. Ogni volta che la mamma tornava all’attacco per riavere la figlia, gli assistenti sociali la minacciavano di rivolgersi al giudice, così l’affido sarebbe diventato coatto. A maggio, data in cui scadevano i due anni previsti come durata massima per l’affido, la mamma ha deciso di tornare definitivamente in Africa, e ha espresso questa intenzione agli assistenti sociali chiedendo di riavere la bambina. Gli assistenti sociali hanno rifiutato dicendo che il medico non permetteva il trasferimento di R. in Ghana se la madre non avesse dimostrato che vicino a casa sua c’è un centro che si occupa di autismo. Abbiamo fatto delle ricerche, ed abbiamo scoperto che proprio nella città dove la famiglia vivrebbe c’è un moderno centro di cura dell’autismo. L’abbiamo comunicato alle assistenti sociali che hanno dato una delle solite risposte scivolose (che ti rimandano sempre ad altri referenti, non ti danno modo di capire cosa fare per raggiungere il tuo scopo ed ogni volta che credi di aver trovato la soluzione del problema, ti spostano la questione su un altro fronte) e così la mamma (che non vuole andarsene senza la sua bambina) è stata costretta a rimanere e R. è in balia delle volontà arbitrarie degli assistenti sociali fino a quando non si sa.

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