Autismo e scherzo | Seconda parte

Autismo e scherzo
Seconda parte

Autismo  scherzo 2

Autismo scherzo 2

Continua il nostro viaggio nel mondo dell’autismo, in particolare ci occupiamo dell’utilità dello scherzo e del gioco con i bambini autistici.

In questa seconda parte vi parleremo della storia di Herger un bambino affetto da Trisomia 21 ed autismo dove, nonostante il parere contrario di molti, lo scherzo ha prodotto effetti dai risvolti imprevedibili.

 

 

 

 

Herger era un bambino di 11 anni affetto dalla Trisomia 21, cosiddetta sindrome di Down, il quale “simpatico” destino aveva ritenuto che la Trisomia 21 non fosse abbastanza grave, così aveva deciso di aggiungerci l’autismo. L’ho conosciuto la prima volta nel 1999. Era un bambino assai difficile. Odiava i rumori alti e la presenza di molte persone. Bastava che in una stanza ci fossero più di 10 persone perché si andasse a nascondere in un angolino o sotto i cuscini. Aveva rare crisi violente, capitava quando qualcuno lo infastidiva o innervosiva. Fu così con J. al quale suonò una mazza sulla testa per tre volte prima che l’educatore riuscisse a fermarlo, J. aveva l’abitudine di prenderti la mano e tirarti, ad Herger questo infastidiva, e glielo fece capire a chiare lettere.

Herger aveva comportamenti inadeguati: portava il pannolino e tendeva a toglierselo per giocare con le feci, dovunque si trovasse, anche per strada. Amava tutti i giocattoli mostruosi o oggetti strani. Il primo giocattolo con cui l’abbiamo conosciuto era una pipa, il secondo una gallina morta che si dà ai cani per farli giocare. Lui la portava a spasso tenendola per il collo, ed era inquietante vederlo aggirarsi per la scuola. Inoltre aveva varie fissazioni, una per gli oggetti, l’altra per le ferite. Si punse al lago con una spina, fu un’impresa togliergliela, ma per il resto del campo, due settimane, zoppicò tenendo il lato davanti del piede alzato e poggiandosi sul tallone. In realtà la ferita si era sanata il secondo giorno, pensammo che gli provocasse dolore, ma la mamma ci disse che era un comportamento che aveva sempre. L’anno dopo per una pellicina sul dito, trascorse tre settimane mantenendosi il dito con l’atra mano.

Herger aveva una situazione familiare, che se pur condivisibile nell’ottica della genitorialità condivisa, sicuramente non lo aiutava ad avere punti fermi: i genitori, molto ricchi, erano separati ed avevano nuovi compagni. Lui viveva una settimana dalla madre ed una settimana dal padre. Curioso era il fatto che Herger fosse più affezionato alla matrigna ed al patrigno, in modo assai palese.

Un giorno eravamo seduti sui tappeti con alcuni bambini ed alcuni operatori. Guadando Herger in viso mi fece pensare a Jack Nicholson e lo dissi ai colleghi. Poi mi rivolsi a lui e gli dissi: «Herger sei proprio Jack Nicholson!». Non l’avessi mai detto, si infuriò e mi disse: «Io non sono jackelson, io sono Herger!». Guardai i colleghi stupito. «Conosce Jack Nicholson e gli sta antipatico?». Così cercai di porgli qualche domanda, ma era inutile continuava a giocare con il gingillo che aveva in mano. Così gli chiesi di nuovo: «Allora non sei Jack Nicholson?». Si infuriò di nuovo. «Io non sono jackelson, io sono Herger!». Ci scappò una risata. «Ok, ok, non sei Jack Nicholson, sei solo un bambino!» e lui ancora «Io non sono un bambino, io sono Herger.!». A tutte le domande: Sei maschio, sei un bambino, sei alto, sei basso, sei bravo, sei monello, sei simpatico Herger rispondeva: «Io non sono …….., io sono Herger!». Ecco spiegato, non era Jack Nicholson il suo problema. Era che lui era Herger e basta.

Così, chiamarlo Jack Nicholson diventò un gioco, e mi accorsi che in fondo ad Herger non dispiaceva affatto. Si arrabbiava ma avevo la sensazione che un po’ gli piacesse. Anche la mamma rise quando glielo raccontammo.

L’anno dopo ritrovai Herger. Così ripresi il gioco. Una o due volte al giorno lo prendevo in giro e la sua risposta era sempre la stessa: «Io non sono jackelson, io sono Herger!». Ma questa cosa non piaceva a tutti e quell’anno c’era anche uno psicologo tra gli educatori, e naturalmente disse che questo gioco poteva creare una confusione di identità, essendo un bambino autistico, c’era il forte rischio che il bambino avesse potuto non sapere più chi fosse. Un bambino autistico? Tralascio in questa occasione la mia atavica domanda su qual è la competenza degli psicologi sull’autismo. Fatto sta che alla fine del campo la madre, anche se con parole diverse, mi disse la stessa cosa. Non so se avesse parlato con un altro psicologo o magari lo stesso del campo si era sentito in dovere di contattarla.

Herger tornò l’anno successivo, l’ultima volta che in cui sono stato uno dei suoi educatori, era il 2001. Lo accompagnò il padre, e non mi fu detto niente a riguardo il gioco di Jack Nicholson, quindi…! Non c’era nemmeno lo psicologo, e col senno di poi devo dire che mi è dispiaciuto molto, ma non perché lo considerassi valido. Durante il campo ogni tanto gli dicevo la solita frase e lui rispondeva sempre al solito modo. Un giorno eravamo pronti per il pranzo e mentre si avviava al suo posto si fermò vicino a me e toccandomi con l’indice mi disse: «Tu sei Herger!». Restai qualche secondo in silenzio, poi d’un fiato gli usai lo stesso tono arrabbiato che usava lui quando gli dicevo che era Jack Nicholson: «No, io non sono Herger. Io sono Claudio!» ed Herger scoppiò a ridere. Aveva imparato lo scherzo. Lo fece due o tre volte, fino a quando non gli dissi che doveva andare a sedersi. Rideva. Herger non rideva quasi mai, se non con un sorriso incomprensibile che mostrava senza motivo e una risata satanica che emetteva di tanto in tanto mentre giocava da solo. Quella volta rideva, rideva di gusto. Durante tutto il campo ci divertimmo a prenderci in giro. Herger aveva imparato e fatto suo lo scherzo. Ecco perché con il senno di poi mi dispiacque che non ci fosse lo psicologo. Herger con me giocava, e quello di Jack Nicholson non era l’unico scherzo e gioco che gli proponevo. Non so quanto potesse essere realmente importante per lui lo scherzo, lo vedevo solo tre settimane all’anno, ma c’erano due elementi importanti: ero uno dei pochissimi educatori di cui Herger conosceva il nome, e l’educatore in assoluto a cui Herger stava a sentire. Ma mentre con Hergen non ci sono stati elementi per valutare l’utilità dello scherzo con Herger, negli anni successivi, rendendo lo studio che con altri casi in cui ho reso lo scherzo una pratica educativa imprescindibile con i bambini autistici. Nel 2003 lo andai a trovare in un altro campo. Quasi non lo riconoscevo. A parte il cambiamento fisico dovuto allo sviluppo, si era chiuso ancora di più in se stesso, gli portai un regalino che subito afferrò, non mi guardò nemmeno negli occhi. Gli chiesi se si ricordava di me, e disse il mio nome. Ma restò chiuso nel suo angolo. Non ritenni in quel momento di proporgli il gioco… ma mi chiedo: se tutti quelli che stavano intorno a lui avessero provato a giocare e a scherzare un po’ di più, quel giorno l’avrei trovato così chiuso in sé stesso?

Nella mia vita ho visto bambini autistici fare il Teacch, l’ABA, tecniche cognitivo comportamentali, tecniche psicologiche etc. ma nessuno, nessuno di questi metodi prevede lo scherzo, se viene fatto è solo a discrezione del terapista, cioè quasi mai.

Grande, grandissimo, immane errore.

 

Autismo e scherzo prima parte

 

 

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